NARDO' - Oggi, alle 17.30, il Consiglio comunale di Nardò decide sull'intitolazione dell'aula consiliare a Renata Fonte. Nell'attesa ecco un intervento autorevole da parte del giornalista Danilo Lupo.
Caro direttore, trovo molto interessante il dibattito che si è sviluppato su “Porta di Mare” circa l’assassinio di Renata Fonte, dopo le ruvide parole riservate a Nardò da don Luigi Ciotti nella cerimonia per il trentennale della morte, il rilancio dell’attento consigliere Pippi Mellone, il risentito intervento del professor Mennonna e la puntuale ricostruzione dell’avvocato Vincenzo Renna. Offro il mio contributo, da “non neritino” amante appassionato della vostra città, al dibattito che si può riassumere in due domande. La prima è: Renata Fonte è stata uccisa per aver difeso Porto Selvaggio dalla speculazione edilizia? La seconda è: Renata Fonte è stata ammazzata dalla mafia? In realtà questa seconda ne sottintende una terza, cruciale: Nardò è una città mafiosa? Le risposte, a mio parere, sono a disposizione di chi si prenda la briga di leggere le sentenze della magistratura. Ma andiamo con ordine.
Renata Fonte è stata uccisa per aver difeso Porto Selvaggio dalla speculazione edilizia?
A questa domanda c’è una risposta fornita in maniera cristallina dalla sentenza della Corte d’assise di Lecce, depositata il 16 marzo 1987 dal presidente Domenico Angelelli e dal giudice istruttore Luigi De Liguori; l’impianto della sentenza di primo grado è stato confermato da quella di Corte d’appello (del 5 febbraio 1988) e da quella di Cassazione (dell’8 novembre 1988). Non c’è bisogno di aprire cassetti segreti, la risposta è semplice: sì.
L’uccisione di Renata Fonte è un delitto su commissione. A commissionarlo è stato Antonio Spagnolo, primo dei non eletti nella lista del Partito Repubblicano, battuto proprio dalla combattiva donna che si affacciava all’amministrazione della città. Spagnolo, un contadino arricchitosi con le pratiche di pensionamento, riteneva che dietro la vittoria di Renata Fonte (e quindi alla base della sua sconfitta) ci fossero brogli elettorali. Per i giudici, che lo hanno condannato all’ergastolo, il primo dei non eletti nella lista del Pri è «un uomo capace dunque di passare - letteralmente! - sul cadavere del suo avversario pur di raggiungere un obiettivo; è il trait d’union più idoneo anche per quella ignobile fauna di pseudo industriali, possidenti, imprenditori edili, “benestanti” che attraverso di lui cercano di realizzare sempre più grandi profitti. E queste non sono delle mere ipotesi – prosegue la sentenza - ma realtà concreta, accertata attraverso la più sicura e affidabile delle prove: è stato lo stesso Spagnolo a riferirlo al Cesari e al Cascione; si noti, non già a tutti e due contemporaneamente ed alla loro presenza (questi due non si conoscono) ma separatamente e in tempi diversi all’uno e all’altro». Chi sono Cesari e Cascione? Il primo è Mario Cesari, il mandante di secondo livello: il pescivendolo di Torre Lapillo che commissionò l’omicidio agli esecutori materiali, Giuseppe Durante e Marcello My, per conto del mandante di terzo livello, Antonio Spagnolo. Il secondo è Cosimo Cascione, il killer mancato: è un affittuario di un appartamento a Veglie di Spagnolo, il quale gli propone di uccidere la Fonte; Cascione accetta, spilla qualche milione di anticipo, ma poi “bidona” e si volatilizza.
Sia al killer mancato che al mandante di secondo livello, Spagnolo spiega i motivi del suo risentimento verso la donna che l’aveva scavalcato nella lista elettorale e che era diventata assessore comunale: «La Fonte, che occupa un posto che non le sarebbe spettato – si legge nella parte dedicata al movente dell’assassinio - “stava facendo perdere un sacco di soldi” ostacolando un progetto di speculazione edilizia, la realizzazione di un residence lungo la costa salentina, verso Porto Selvaggio. (Spagnolo) accenna poi, sempre vagamente, all’esistenza di altri cointeressati alla faccenda. Ciò è quanto riferisce il Cesari e quanto come teste dichiarerà il Cascione, sulla cui genuinità e credibilità, almeno su questo punto, non è certo consentito neanche per ipotesi dubitare».
I magistrati della Corte d’assise, a questo punto, si trovarono davanti a uno scoglio insidioso, sul quale le difese (specialmente gli avvocati Corleto e Gironda) tentarono di far naufragare il ragionamento dell’accusa: Porto Selvaggio era già stato riconosciuto «parco» ben quattro anni prima che avvenisse il delitto Fonte. La legge regionale è la 21 del 1980; per essa si era battuto con passione un vasto fronte ambientalista neritino: di questo fronte, Renata Fonte era sicuramente stata parte, ma altrettanto sicuramente non ne era la leader. Il ragionamento degli avvocati delle difese, che ha trovato immediata sponda (e piantato profonde radici) nella gran parte dell’opinione pubblica di Nardò era, pressappoco, questo: la legge dell’80 dichiarava intoccabile quell’area e di conseguenza rendeva impossibile ogni speculazione edilizia. Il movente basato sull’interesse speculativo/politico veniva così a cadere.
Un’obiezione che la sentenza sul caso Fonte smonta su due piani, fornendo una risposta generale e una risposta particolare. Risposta generale: «L’obiezione che pure si è fatta con molta insistenza e relativa all’impossibilità concreta di “sfruttare” Porto Selvaggio perché parco naturale, non tiene conto delle “italiche risorse” e della incredibile capacità di tanti amministratori nostrani e delle loro cricche corporative di portare avanti piani di lottizzazioni, insediamenti urbanistici, creazioni d’interi villaggi nonostante le innumerevoli leggi, leggine, decisioni ad alto livello, prese di posizioni, movimenti d’opinione, interpellanze parlamentari, che solo teoricamente hanno cercato di porre argine a tale fenomeno». Una risposta, se ci si pensa bene, profetica in quel di Nardò. Basti pensare alle ruspe in movimento fra gli ulivi secolari di Sant’Isidoro e al villaggio turistico che sta per spuntare nella vincolatissima area della Sarparea. Interventi edilizi contestabili e contestati, ma con le carte sistemate (o in via di sistemazione).
Ma in quel 1987 i giudici vanno oltre e la risposta alle obiezioni difensive da generale si fa particolare e da storica si fa tecnica. «Si è parlato di Porto Selvaggio, ma il riferimento è chiaramente idoneo ed inteso ad individuare solo genericamente una località – continua la sentenza - si dimentica proprio tutta la diatriba che sorse intorno alle “zone” di rispetto, diatriba che iniziatasi nel novembre del 1983 continuò fino a giugno del 1984 allorché venne emanata la legge regionale per Porto Selvaggio». Il riferimento è evidente: la legge del 1980 aveva individuato il parco di Porto Selvaggio (attribuendogli, per usare l’azzeccatissima definizione di Luciano Tarricone, «l’ambigua qualificazione di “naturale attrezzato”») e lo aveva perimetrato alla bell’e meglio. Nei quattro anni successivi, però, si giocarono due partite importantissime: la prima fu sul piano di adeguamento redatto dall’ingegner Cesare Sarno, che tra le altre cose compensava l’inedificabilità dei terreni inclusi nel parco con altre cubature in zona; la seconda fu sui confini effettivi di Porto Selvaggio, partita che si concluse solo il 4 giugno 1984 con la delibera di Giunta Regionale numero 5012, che deliberò il Piano di Utilizzo della zona distinguendo tra un Comparto A di 231 ettari, qualificato come “parco”, e un Comparto B di 193 ettari, individuato come “futuro ampliamento”. «E sono proprio questi i momenti – prosegue la sentenza - in cui era necessario avere in Comune una “persona di fiducia”, non certo la Fonte che pur senza tanti clamori s’interessava proprio al Comitato per la tutela di tale zona, e che già da allora temeva manovre speculative su quella zona che doveva restare patrimonio collettivo di tutti. Ecco dunque che lo Spagnolo è un passaggio obbligato per chi intendesse operare in quella direzione, ed è per questo motivo che l’imputato, probabilmente facendo così anche gli interessi di altri, si decise a liberarsi per sempre del suo scomodo avversario. Questo è il movente – concludono i giudici - esso ci viene dalle stesse parole dell’interessato e da qualche considerazione, “minima”, che la logica ed una sana lettura delle carte processuali impongono. L’imputato quindi maturò la sua decisione criminosa, animato certamente da spirito di vendetta e comunque per rancore contro chi lo aveva privato del “suo” posto al Comune, ma soprattutto perché solo attraverso la eliminazione fisica della Fonte egli poteva attuare o favorire le mire speculative di chi, come lui, da tempo aspirava a “mettere le mani” su Porto Selvaggio».
Quegli imprenditori dalle mani avide non furono mai individuati; anche perché, come è stato più volte ribadito nelle aule di giustizia, furono forse il “motore immobile” del delitto ma non vi presero parte. Anche su questo la sentenza è nettissima: «Il presunto quarto livello è la suggestione di un inutile fantasma», vi si legge. La verità processuale, si sa, non è assoluta. Ma è l’unica di cui disponiamo con certezza, frutto del dibattimento tra tesi opposte e di un giudizio terzo tra accusa e difesa. La verità processuale ci dà quindi una risposta alla prima domanda: Renata Fonte è stata uccisa per aver difeso Porto Selvaggio dalla speculazione edilizia.
Rimane sul tavolo la seconda domanda: l’assassinio di Renata Fonte è di tipo mafioso?
Anche qui, la lettura degli atti si impone. E la risposta, stando alla verità processuale, è “no”. I cinque condannati (i due esecutori materiali, il mediatore, il mandante di secondo livello e il mandante di terzo livello) furono accusati di concorso in omicidio, non di associazione mafiosa. E non potrebbe, tutto sommato, essere diversamente. L’associazione a delinquere di stampo mafioso venne introdotta nel codice penale dall’articolo 416 bis: era il settembre del 1982, un anno e mezzo prima del delitto Fonte e un anno dopo la fondazione della Sacra Corona Unita. Per lunghi anni, però, la “quarta mafia” non fu considerata tale, ma minimizzata a presenza disorganica di criminali comuni: la svolta (giudiziaria e culturale) arriverà dieci anni dopo, con il maxiprocesso di Lecce del 1991 che vide 134 esponenti della Scu condannati per associazione mafiosa.
Ma se anche la cultura giudiziaria fosse stata differente e la percezione della “mafiosità” della criminalità organizzata salentina fosse stata quella attuale, difficilmente il delitto Fonte sarebbe stato classificato come omicidio di mafia. Tra il mandante di terzo livello Antonio Spagnolo, il mandante di secondo livello Mario Cesari, il mediatore Lelè Sequestro, il palo Marcello My e l’esecutore materiale Pippi Durante non c’era un vincolo associativo strutturato e permanente. Non formavano un clan, ma si ritrovarono insieme per l’occasione e per reciproca opportunità; alcuni di loro erano incensurati, altri avevano piccoli precedenti da rubagalline e anche l’esecutore materiale, Pippi Durante, all’epoca dei fatti era un ragazzo di 25 anni che deteneva abusivamente un’arma e che con il provento dell’omicidio si precipitò ad acquistare una vistosa Lancia Beta Montecarlo: più un “bullo di paese” che un killer professionale. È difficile dire cosa sia diventato, trent’anni dopo, quel ragazzo di 25 anni. Raccontare la sua esistenza comporterebbe anche una riflessione profonda sulla prigione e sulla sua funzione; specie quando è a vita, il carcere in Italia non è uno strumento di rieducazione e reinserimento sociale ma una palestra di delinquenza. O peggio, un luogo di reclusione e punizione dei corpi, come la storia del figlio di Durante, Gregorio, sembra dimostrare: ma questa è – appunto – un’altra storia.
L’ultima domanda rimasta sullo sfondo, invece, riguarda Nardò e il suo rapporto con la mafia o quanto meno con la “mafiosità”. Qui il terreno si fa terribilmente scivoloso: sul piano inclinato del dibattito rotolano pochi fatti e molte opinioni, nella trama dell’identità cittadina si intrecciano fatti lontani (ben ricostruiti, ad esempio, da Vincenzo Renna nel suo intervento su questo sito) ma anche avvenimenti recenti: ad esempio tutta la partita del sistema agricolo, che sembra vissuta come un derby tra “mori” e “milunari”, un fastidio stagionale lontano anni luce dalla coscienza collettiva della città.
Senza farla troppo lunga, potremmo rispondere pensando alla nostra vita quotidiana, quando ci troviamo spesso di fronte al bivio tra parlare o di tacere, tra l’aprire la bocca oppure il distogliere lo sguardo. Sappiamo tutti che da una parte c’è una scelta comoda e dall’altra c’è una scelta giusta.
La mafia non è solo una fattispecie giuridica; è anche una mentalità diffusa, fatta di opportunismo, incoscienza civica, cinismo, malaffare, omertà, paura. Il nostro grado di mafiosità sarà determinato da quante volte abbiamo preferito la strada più comoda a quella più giusta. E dalle occasioni nelle quali, invece di distogliere lo sguardo, abbiamo aperto la bocca e non abbiamo taciuto.