NARDO' - Ancora un "dispetto", questa volta assolutamente casuale, da Fratelli d'Italia. Mentre proprio la Lega di Salvini tanto cara al sindaco di Nardò spinge per questa soluzione. Pare ci siano stati già contatti con l'attuale presidente della Provincia, Stefano Minerva, per la successione.
Sì, Pippi Mellone ambiva a diventare presidente della Provincia di Lecce. In tal senso ci sarebbero stati proficui contatti con l'area di Michele Emiliano con la quale il sindaco di Nardò intrattiene, nonostante qualche dissidio di facciata (con qualcuno, non con tutti...) ottimi rapporti.
Quale sarebbe stato l'accordo?
Mellone sostenuto alla carica di presidente con diverse civiche e l'appoggio di Lega e "area" Emiliano. In cambio Stefano Minerva sarebbe stato votato dalla stessa e fortissima area per la sua candidatura alla Regione. Sembrava un patto equo per due emergenti che, la cronaca continua a dimostrarlo, sono fatti della stessa pasta politica nonostante uno si professi di destra e l'altro di sinistra. Ma sappiamo anche che genere di accordi hanno fatto, in passato, Mellone ed Emiliano, Mellone e Minerva, Mellone e innumerevoli sindaci di area Pd.
Nessuna meraviglia, dunque.
Nemmeno se il Pd avesse deciso di candidare, alla carica di presidente dell'ente, un anonimo consigliere comunale di uno sperduto comune del Leccese. Per non disturbare nessuno, men che meno Mellone.
Ma ora la politica nazionale spariglia le carte: Fratelli d'Italia "frena" sul "postificio" che verrebbe a crearsi con il ripristino dell'elezione popolare del consiglio provinciale da parte dell'elettorato. Ora, infatti, l'ente esiste ma il voto è riservato ai Consigli comunali.
Ed ora? Che cosa succederà se ci sarà congestione nella corsa al Consiglio regionale?
Vedremo, finalmente, Mellone e Minerva su fronti opposti e vinca il migliore? Uno a destra e l'altro a sinistra?
Interrogativi gustosi ma basterà aspettare.
Intanto leggetevi una sintesi dell'articolo apparso oggi su Repubblica.
https://www.repubblica.it/politica/2023/09/08/news/province_addio_fdi_lega_soldi_manovra-413715633/?ref=RHLF-BG-I413692315-P11-S2-T1
Bye bye Province. Non se ne parla prima del 2025. La resurrezione del vecchio ente, battaglia cara alla Lega, finisce nel freezer del Parlamento. E la mossa è destinata ad acuire le tensioni tra FdI e il Carroccio. Martedì a Palazzo Madama si è riunita la Commissione Affari costituzionali, che ha rimandato la discussione a data da destinarsi. Formalmente il rinvio è dovuto a un intoppo formale: l’assenza della sottosegretaria agli Interni, la meloniana Wanda Ferro, che cura il dossier per il governo. Ha avuto problemi personali e non poteva essere presente. Ma in realtà, raccontano fonti di maggioranza, la ragione è un’altra: non ci sono abbastanza soldi.
Dunque dopo l’accelerazione degli scorsi mesi, il partito di Giorgia Meloni ora frena: le Province possono attendere.
Con buona pace del ministro degli Affari regionali e delle Autonomie, Roberto Calderoli, che ancora pochi giorni fa, il primo settembre, rilanciava: “Il mio obiettivo – la dichiarazione all’Agi - è entro il 2024 ridare vita alle province, con l’elezione diretta del presidente da parte dei cittadini”. C’era già il traguardo: giugno 2024, con un election day da celebrare in tutta Italia, da accorpare (per risparmiare) alle Europee. Un’impostazione che avrebbe favorito il centrodestra, dato che dall’altro lato del campo le opposizioni sono ancora divise, e che avrebbe evitato numeri disastrosi per l’affluenza.
Il problema è che il ripristino dell’elezione diretta del presidente comporta una serie di oneri a carico dello Stato. Costi diretti, come il ritorno delle indennità, anche per la giunta e i consiglieri, più altri consequenziali, derivanti dallo storno di competenze ora in capo alle Regioni. In Senato non sono ancora stati messi nero su bianco calcoli precisi, ma secondo diversi partiti che lavorano sul dossier, la forbice va da 200-300 milioni di euro fino al miliardo, in caso di trasferimento massiccio di funzioni. Con la legge di bilancio lacrime e sangue che si preannuncia, dunque, Fratelli d’Italia ha deciso di schiacciare sul freno. Con l’offerta alla Lega di andare avanti sull’autonomia, dato che il testo in Commissione è stato limato (e ammorbidito) dal meloniano Andrea De Priamo, con diversi ritocchi rispetto alla bozza iniziale di Calderoli.
Insistere sulle province invece - questo è il ragionamento che circola nel partito della premier - rischierebbe di regalare un assist alle opposizioni, soprattutto ai 5 Stelle, che potrebbero cavalcare il provvedimento, mettendola giù così: Meloni moltiplica le poltrone, mentre taglia il reddito di cittadinanza e boccia il salario minimo. Anche il Pd peraltro sul ripristino dell’elezione diretta è abbastanza morbido. Non ostile, ma con alcuni paletti: scorporare dalla riforma le città metropolitane, come Roma, Milano e Napoli, che oggi sono rette dai sindaci della città capoluogo. E prevedere da subito quali competenze trasferire, con numeri chiari su personale e fondi. Una discussione vischiosa, che FdI vorrebbe dribblare. Aspettando di capire come reagirà Salvini.