NARDÒ - Dopo la “parmigiana musicale” dell’Azienda Agricola Falconieri, la seconda puntata della serie dedicata all’agricoltura neritina “alternativa” punta l’obiettivo sul significato etico e sociale che il lavoro nei campi può rappresentare. E’ una storia che parte da lontano, dal Darfur, una martoriata provincia del Sudan, ed ha come protagonista un ragazzo, Musse Siliman, detto Mussa, che ci accoglie nella sua umile ma dignitosa stanzetta del centro storico di Nardò, che condivide temporaneamente con un altro compagno.
E’ il mese sacro del Ramadan, il digiuno santo per i musulmani, che i praticanti rispettano fedelmente dall’alba al tramonto, astenendosi dall’assunzione di cibo, bevande e rapporti sessuali. Poco a che vedere con alcuni digiuni di casa nostra, quando, per non mangiare carne, si fa penitenza portando a tavola un’orata ai ferri. Questo è un altro discorso, per qualcuno, ma dà la cifra dell’intensità con la quale questi ragazzi vivono la loro vita, anche nella sua dimensione spirituale. Avere un tetto sulla testa, per quanto piccolo, per qualcuno che percepisce un’indennità mensile a cinque zeri può essere “una pacchia”, alla quale dover metter fine, mentre per il protagonista di questa storia è una grande conquista, della quale val la pena parlare, anche se altri lo hanno già fatto prima di noi e, mi auguro, altri ancora lo faranno in futuro. Perché, mai come in questo caso e di questi tempi, repetita iuvant!
Il volto di Mussa è stampato sulle etichette di una passata di pomodoro “Sfruttazero”, simbolo di un riscatto umano e sociale, che egli stesso col suo lavoro contribuisce a produrre nei campi che l’associazione neretina Diritti a Sud destina alla coltivazione del pomodoro. Un’agricoltura che viene portata avanti con metodi autenticamente naturali, non vincolati a certificazioni biologiche rilasciate a pagamento, ma legati all’utilizzo di macerati naturali per trattare le piante e difenderle dai parassiti, grazie all’apporto tecnico di persone come l’agronomo Massimo Romano e di Claudio Romano, contadino di grande esperienza, o Emiliano Gira e Roberto Polo, solo per citarne alcuni. Un lavoro quotidiano e paziente, nel quale la tempestività dell’intervento è determinante per il successo finale.
Come lo stesso Mussa ama dire, la sua faccia non sta su quell’etichetta perché lui sia diventato “famoso”, ma perché rappresenta tutti i lavoratori liberi che con l’impegno ed il lavoro hanno affermato i loro diritti.
“Quando sono partito dal Sudan avevo 17 anni” – esordisce Mussa, al quale abbiamo chiesto di farci una cronistoria del viaggio che lo ha portato da noi, a Nardò. “Sono originario di Nyala, una città del Darfur, nel Sudan Occidentale. Qui ho vissuto e frequentato il liceo fino a quando, nel 2005, un decreto presidenziale ha imposto l’arruolamento nell’esercito a tutti i sudanesi di età compresa tra 16 e 65 anni, al fine di combattere la guerra civile contro i ribelli, iniziata due anni prima”.
“Mio papà era un insegnante, mia madre una contadina e gestiva anche un piccolo negozio di generi alimentari. Io ho sempre amato studiare ed il mio sogno era, e resta, legato allo studio”.
Ho negli occhi un ragazzo di pelle scurissima, con una folta capigliatura riccia di colore nero corvino, seduto su una panchina della “Villa” a Nardò intento a leggere un libro. Gliene parlo, lui annuisce orgoglioso. Un’immagine di Mussa che mi ha sempre incuriosito, fin dalle sue prima uscite nella nostra città, e che oggi trova conferme in queste dichiarazioni. “Quando il Presidente ha imposto il precetto militare, in Sudan sono iniziate diverse manifestazioni studentesche di protesta, alle quali io ho partecipato. Un giorno la milizia iniziò a sparare sugli studenti ed un mio cugino rimase per terra, colpito a morte a pochi metri da me. Io fui arrestato e portato in carcere. Riuscii ad uscire solo grazie all’interessamento di un mio parente avvocato che, subito dopo avermi fatto ricoverare in un ospedale, mi consigliò di scappare dal Sudan per evitare di essere arruolato con la forza o ucciso.
La mia fuga dal Sudan iniziò di notte, su un fuoristrada che correva a tutto gas con le taniche di benzina sul tetto, a luci spente per evitare di essere intercettato dall’esercito ribelle, insieme ad altri 25 disperati stipati un po’ ovunque, filando dritto nella sua folle corsa verso il confine tra Ciad e Libia. La traversata del deserto fu un’esperienza terribile, nella quale rimanemmo senza mangiare e con pochi sorsi d’acqua al giorno, per sette giorni. La nostra auto ad un certo punto andò in avaria e l’autista dovette raggiungere a piedi il confine col Ciad per procurarsi, non si sa come, i pezzi necessari per ripararla, per poi tornare dopo due giorni a riprenderci. Restammo a digiuno e la razione d’acqua si ridusse ad un sorso ogni 18 ore! Attorno a noi, lungo il deserto, ogni tanto comparivano resti umani di ragazzi ancor più sfortunati, che non ce l’avevano fatta, mentre noi eravamo ancora miracolosamente vivi!
Varcato il confine con la Libia, sono rimasto lì in stato di clandestinità per circa due anni, lavorando come aiutante in un negozio di vestiti. Ma il mio obiettivo era sempre studiare: privo di documenti, la permanenza in Libia non è stata facile. I libici non mi trattavano bene, erano un popolo molto “maleducato”. Dopo due anni mi trasferii in Egitto, dove rimasi per tre mesi. Qui riuscii ad ottenere un documento simile ad un passaporto, grazie al quale avrei potuto raggiungere un mio fratello in Giordania. Ma sia in Egitto che eventualmente in Giordania il problema principale era l’assenza totale di lavoro. L’unica cosa positiva della mia permanenza libica fu che riuscii con grande sacrificio a mettere da parte una somma di danaro sufficiente a farmi “ungere le ruote” con le quali poter raggiungere la Turchia e da lì, nei miei progetti, l’Europa. Così feci. Intercettai alcuni trafficanti sudanesi dei quali mi servii per raggiungere la città di Smirne. La Turchia è un paese molto “affascinante” (Mussa non parla un italiano fluente, ma i vocaboli virgolettati li riporto tal quali perché spesso rendono l’idea, ndr), ma resto lì solo il tempo necessario per contattare altri trafficanti che, in tre giorni, mi consentirono di arrivare in Grecia. Ero finalmente giunto in Europa, ma mi accorsi ben presto che il territorio ellenico non offriva, anch’esso, molte opportunità per la mia sopravvivenza. Il mio nuovo obiettivo, a questo punto, diventò raggiungere il Nord Europa, magari l’Inghilterra! Per far ciò dovevo riuscire ad arrivare in Italia. La raggiunsi per due volte: la prima volta, dopo una brevissima permanenza, venni bloccato dalle autorità e rimpatriato in Grecia. La seconda volta, nascosto nel sottofondo di un camion per trasporto merci, arrivai di nuovo in Italia e una volta sbarcato feci perdere le mie tracce. Venni di nuovo fermato dalla polizia, che provò ad identificarmi, prendendomi peraltro le impronte digitali. Venni portato in un centro d’accoglienza in Sicilia, dove restai per circa tre mesi fino a quando, ottenuti i documenti grazie ad alcune norme contenute nel Trattato di Dublino, riuscii ad uscire. Finì così la mia clandestinità ed iniziò la mia seconda, o forse terza… o quarta vita, non so dire”.
Mussa oggi vive a Nardò, come abbiamo detto all’inizio di questa storia. E’ un ragazzo che si dà un gran da fare, assieme ad altri compagni che, come lui, provengono da esperienze di vita che definire “difficili” sarebbe riduttivo. Mentre lo intervistiamo, ci raggiunge Danio Aloisi, un giovane neretino, uno degli attivisti dell’Associazione Diritti a Sud. Ascolta con me parte del racconto di Mussa e resta sempre in silenzio. Ci confida che le cose che ci ha raccontato questo ragazzo sono in parte una novità anche per lui, perché nessuno di Diritti a Sud è solito chiedere agli stranieri che vi fanno parte particolari della loro vita che essi stessi non vogliano spontaneamente raccontare. Probabilmente, insomma, Mussa ci ha confidato alcuni aneddoti inediti anche per molti di loro.
Danio ci racconta invece tanti particolari delle iniziative legate principalmente alla produzione della salsa di pomodoro “Sfuttazero”. La produzione del 2017 (circa 15.000 bottiglie) è stata interamente venduta e loro si prefiggono una crescita annuale del 20-25%. Gli utili sono serviti per pagare le giornate di lavoro ai circa 20 lavoratori impiegati, tra italiani e stranieri. Alcuni di questi ultimi, soprattutto, non sono ancora economicamente autonomi, ma vista la loro condizione di partenza ce la mettono davvero tutta per diventarlo, a costo di grandi sacrifici, e sono da ammirare per questo (sempre a proposito della tanto sponsorizzata “pacchia”, ndr). Diritti a Sud sta investendo molte risorse ed energie nella formazione professionale, promuovendo la partecipazione di questi lavoratori a percorsi formativi per specializzarli in produzioni naturali, che non facciano cioè ricorso all’uso della chimica. “Ecco perché –ci spiega Danio – abbiamo voluto esprimere pubblicamente e con forza la nostra netta contrarietà ad recente Decreto Martina che impone l’uso di pesticidi nel contrasto al fenomeno della Xylella, perché è contrario alla nostra idea di agricoltura naturale ed eco sostenibile”.
“Dal punto di vista organizzativo– continua- abbiamo scelto una dimensione non solo locale, cercando di fare rete in tutta Italia: da un lato abbiamo aderito alla rete salentina naturale, locale e solidale rappresentata da “Salento Km. 0” (visita il sito https://www.salentokm0.com ); dall’altro contribuendo alla costruzione della più ampia rete nazionale “Fuori Mercato- Autogestione in Movimento” (http://www.fuorimercato.com ). Attualmente quest’ultima conta sul sostegno di circa 40 associazioni, ognuna delle quali produce qualcosa che immette sul mercato: il nodo da sciogliere non è solo commerciale, ma anche politico, e punta alla creazione di quello che noi definiamo “mutualismo conflittuale”, alternativo ai canali commerciali classici, in aperta antitesi alla grande distribuzione”.
Vi invitiamo a visitare i siti che abbiamo linkato per approfondire l’argomento. “L’idea è quella di sviluppare e far crescere anche in Italia, sul modello brasiliano del “Movimento dei senza terre”, i gruppi d’acquisto solidale, il commercio e quo e solidale, i gruppi d’acquisto popolari, la vendita diretta nelle fiere, nei mercati locali, nelle piccole botteghe private, o sviluppando piattaforme più ampie come l’E-commerce, verso le quali rivolgiamo un grande interesse, ricambiato peraltro da un crescente interesse estero nei nostri confronti, come dimostrano le pagine che alcuni organi di stampa tedeschi e francesi hanno dedicato negli ultimi mesi al nostro modello ed alle nostre attività”. ( https://portail.bastamag.net/SfruttaZero-une-sauce-tomate-contre-l-exploitation-des-travailleurs-migrants-et - http://observers.france24.com/fr/20180216-italie-sfruttazero-recolte-tomate-ethique-migrants-esclavage - https://mobil.news.at/a/europas-neue-sklaven-8297108).
Tanto è stato fatto, indubbiamente, e tanto resta ancora da fare, con grandi sacrifici anche economici. Senza mai dimenticare, per chiudere, che come per ogni attività imprenditoriale, il rischio di non farcela è dietro l’angolo. “La stagione 2018 è in pieno svolgimento – conclude Danio - Puntiamo sul nostro prodotto, la salsa di pomodoro “Sfruttazero”, ma anche su altre produzioni “minori”, sulle quali stiamo comunque investendo per diversificare la produzione e garantire a questi ragazzi un sostentamento che copra una sussistenza dignitosa per l’intero anno. In questo periodo possiamo solo rendicontare tantissime spese: abbiamo acceso un mutuo con la Banca Etica di Bari, che ci è sempre stata vicina finora. Contiamo, anzi speriamo anche quest’anno, di coprire innanzitutto le spese e poi, tutti insieme, di continuare a garantire quanto riportato sull’etichetta della passata di pomodoro che sulla quale è raffigurato il volto del nostro amico Mussa: “Sudanese, Contadino, Libero!”.
Giuseppe Spenga