SUL “CASO” DELL’INSEGNANTE LA SCUOLA TUTTA NON NE ESCE BENE
Poca discussione, troppa cautela, nessuna volontà di capire
In questi giorni a Nardò è stato rappresentato un “noir sociale” da esportazione. Nel senso che ha prodotto un campo variegato di opinioni: si passa dal merito (poco, in verità) alla neutralità (un po’ di più), dai giudizi sommari (la maggior parte) alle pulsioni più abiette (lasciamo perdere). Emerge,comunque, un campionario dal gusto acre dove spicca la mancanza di educazione e la volontà di rispettare la persona, per farsi invece trascinare dall’invocare la gogna e il pubblico ludibrio. I riferimenti inducono tutti al caso dell’insegnante di sostegno B.L.R, accusata di maltrattamenti di minori, allontanata dall’insegnamento per i prossimi dodici mesi.
Purtroppo, non siamo in quelle condizioni. Cioè, non sono più in tanti disposti a ragionare e ad avere pazienza; forse soltanto quello spicchio di cosiddetta opinione pubblica che ha qualche dubbio sulla vicenda ed è pronta a far sentire la propria voce. Perché, è chiaro, qui la posta in gioco è molto alta. E’ in ballo la sorte (cioè la vita) di una persona. Il processo, poi, dirà chiaramente se le accuse hanno le solide basi che oggi vengono contestate.
E, comunque, siamo in presenza di un impianto accusatorio da brivido. E allora, ammenochè a Nardò non sia sorta dalle ceneri una nuova fenice neritina, sempre l’insegnante, 49 anni (madre di tre figlie studentesse; più precisamente, insegnante “di sostegno” a significare un tratto caratteristico della persona, persona ancora impegnata nel sociale), è davvero difficile capire la vicenda e spiegarla in tutti i casi possibilmente declinabili.
Uno scienziato ci potrebbe anche dire come una persona (irreprensibile nella vita e nel lavoro, stimata da amici e colleghi che si stanno adoperando con azioni per mostrarle tutto il loro affetto e aiuto), possa d’un tratto subire una così radicale trasformazione, il suo lato oscuro, che l’avrebbe poi portata a maltrattare i bambini, con l’accusa di “tirate di capelli” e violenze verbali tali da intimidirli e infondergli paura al solo volere andare a scuola. Quantomeno, queste le accuse mosse all’insegnante da parte di alcune famiglie dei piccoli, comprensibilmente preoccupate, e che poi sono state recepite in sede di indagini e referti sanitari.
Beninteso, non vogliamo svalutare né banalizzare la questione, poiché alla docente noi stessi potremmo rimproverare i suoi metodi, e dire che quella cosa più non si fa. Forse ancora possibile ai “grandi”, ma ai piccoli senz’altro no, anche se molti ricordano (e io tra questi) le decine di “palmate” che ogni giorno ricevevamo già a sette, otto anni da parte dell’insegnante di turno, senza che a casa qualcuno si scandalizzasse; anzi ci mettevano sotto accusa e volevano sapere cosa avevamo combinato. Lo so, conosco tutte le obiezioni, altri tempi e questo esempio è ormai da scartare e non più sostenibile. Su questo, peraltro, persistono diverse posizioni pedagogiche che intrecciano scuola-famiglia-società e ciascuno è libero di pensarla come vuole.
Ma non divaghiamo ed entriamo subito nel merito del provvedimento di interdizione di un anno dall’insegnamento. Diciamo subito che appare fortemente sproporzionato e afflittivo, prima ancora di aver concluso l’iter processuale (perché, è chiaro, ci sono denunce in campo e si andrà a processo).
Il pesante provvedimento è già lesivo della sua onorabilità, anche nel caso di una sua futura assoluzione e presuppone il fatto che la stessa insegnante “sia già colpevole” e “ l’esito già scontato”, proprio sulla scorta delle denunce presentate e dei provvedimenti presi.
Il Gip (giudice delle indagini preliminari) Simona Panzera e il Pm Maria Rosaria Micucci hanno fatto poi la loro parte con l’adozione della misura di garanzia prevista per le interdittive chieste dalla Procura e applicate dal giudice: l’indagata è stata interrogata prima che fosse emessa l’ordinanza per difendersi dalle accuse di “maltrattamenti e lesioni personali, aggravato dalla continuazione e dal ruolo di educatrice”.
L’insegnante si è difesa respingendo le accuse, ma evidentemente ciò non è stato ritenuto sufficiente per scagionarla. Ha riconosciuto soltanto un episodio “ di tirata di capelli” e nemmeno quello intendeva fare, adottando invece i lacerti di un “sistema educativo” ormai in disuso da parte di tanti insegnanti di ieri e di oggi: quello di sgridare gli alunni, arrabbiarsi così tanto da spaventare i bambini, metterli dietro la lavagna, lasciarsi a minacce verbali (alcune delle contestazioni mosse all’insegnante ndr).
Nulla da obiettare sulla veridicità e consistenza delle accuse rivolte all’insegnante (lo farà il suo avvocato difensore), ma ulteriori indagini (ad esempio, le colleghe in compresenza nella classe non sono state ancora ascoltate), potrebbero attutire la portata del procedimento e far ridimensionare il caso, sempre che non venga confermata la mutazione genetica dell’insegnante in questione.
Che, si ripete, si tratta di persona integerrima, con fedina penale immacolata. Eppoi, una lunga carriera di insegnante, non una nota, non una censura, non una contestazione “immediata”, in tempo reale, come ognuno sa debba avvenire in un rapporto di lavoro subordinato.
Se ci sono responsabilità nella vicenda e, si ripete, ancora ricordandolo all’insegnante B.L.R. che queste cose più non si fanno, bisognerebbe vedere chiaro come tutto sia potuto succedere da parte di una singola persona, nella fattispecie di un’insegnante. Nessuno si è mai accorto di nulla? Si ricorda anche la singolarità della vicenda; in tutte le precedenti circostanze sin qui appurate e che hanno riguardato maltrattamenti veri o presunti da parte di insegnanti verso gli alunni, e questo in tutt’Italia, non c’è notizia che abbia riguardato una singola persona e che abbia potuto mettere in atto un così perfido sistema punitivo. E’ mai possibile che nessuno si accorgesse in tempo, la richiamasse e denunciasse per giunta?
Curioso anche di sapere se da parte della Dirigente Scolastico ci sia stato un suo ruolo volitivo, e se non poteva fare di più e meglio di quanto non abbia già fatto. E questo, volendo citare testualmente un passaggio delle sue dichiarazioni messe agli atti: “quando venne a sapere dai genitori delle lamentele degli alunni aveva disposto che non restasse più sola in classe con i bambini”.
Dichiarazione di grande importanza, poichè, a questo punto, c’è una fase temporale tutta da valutare. Non un giorno o due e nemmeno una settimana. Si tratta di ben tre mesi, da novembre a gennaio, durante i quali sarebbero avvenuti gli episodi incriminati. Come mai è stato fatto passare così tanto tempo senza intervenire, senza bloccarla, alle prime informazioni ricevute dai genitori, senza mettere un punto fermo, senza inchiodarla con una microspia installata di nascosto come pure si è fatto in tante altre indagini del genere? E’ certo, comunque, che l’insegnante non sia riuscita a interpretare i “tempi nuovi” sanciti dalla nuova didattica e sia rimasta travolta da quegli stessi “strumenti educativi” che pensava di mantenere e usare.
Alla fine, restano le pesanti accuse che il gip Panzera ha così formulato: “i plurimi episodi lesivi dell’integrità psico-fisica delle vittime possono essere adeguatamente interpretati come espressione di una condotta di sistematica e programmata sopraffazione. Una manifestazione di una reiterata, costante ed abituale aggressione”.
Abbiamo letto bene? Si tratta di una prosa impegnativa e senza via d’uscita. Forse un mero esercizio di stile. C’è il sospetto che il giudice, con questo giudizio lapidario, si sia fatto prendere la mano. Non serve essere avvocati o giuristi per comprendere il peso di questo provvedimento. La conferma di questo impianto accusatorio presuppone l’infliggere una sicura condanna, certamente consona a figure criminali e non a una persona che in vita sua abbia subito una sola contestazione. Con tutto il rispetto, con giudizi di tal fatta e così affrettati, si rischia di prendere un abbaglio.
E se questo non basta per distruggere una persona (perché, è chiaro, di questo si tratta), ci ha pensato il web a riparare possibili lacune e a farlo con una ferocia senza limiti. Il risultato? Scatenare la canea e istinti primordiali verso una persona che probabilmente ha sbagliato, ma che ha pieno diritto di difendersi nel processo e in quella sede vorrà dimostrare la sua estraneità ai gravi fatti contestati. Sicchè, augurare la morte all’insegnante, come è stato scritto sulla pagina virtuale, chiude sul nascere ogni futuro procedimento, certamente chiude i conti nei confronti del “reo” ( e, detto banalmente, non si potrà più procedere, essendosi disfatti di lei). Che dire? Che sulla rete, nell’anonimato, non bisogna macchiarsi di tanto protagonismo e vergogna. C’è sempre l’occasione per dire la propria, per manifestare un pensiero. Basta averlo.
LUIGI NANNI