NARDO' - Di che cosa è fatto un paese? Suppongo sia fatto di gente, di luoghi, di simboli. Ecco, sì: di “simboli”.
Da sempre, da quando l’ho vista la prima volta, ho pensato che il simbolo di Nardò, per eccellenza, sia quella fontana, quella nella piazza, la fontana del toro.
Il toro della piazza è, più di qualunque altro, l’identificazione e forse anche la metafora di questa nostra Nardò.
Nella rappresentazione teatrale di Fabrizio Saccomanno in programmazione in questi giorni, ho sentito “un paese vuol dire non essere soli”, frase di Pavese dalla quale prende il nome lo spettacolo. Ora mi ritorna in mente e penso alla solitudine del nostro simbolo.
Pur ritrovandosi nella piazza più percorsa del centro storico, e della città, il toro è lasciato abbandonato a se stesso e all’incuria. Non lo dico io, è una constatazione, un pensiero diffuso.
L’acqua non scorre più da mesi (forse anni) e anche i piccioni della piazza parrebbero lamentare il “disservizio”. Solo il consigliere comunale d'opposizione, Giancarlo De Pascalis nel settembre 2011 ne denunciò lo stato di degrado senza ottenere considerazione alcuna dai nostri amministratori.
«Se vuoi bere ti tocca andare dal Toro». Sono cresciuto con quell’abituale modo di dire e mi ha sempre divertito, oggi evidentemente un po’ meno.
Allo stato attuale la fontana è un monumento che abbisogna di restauro straordinario e manutenzione dell’impianto idrico.
Eppure, quando venne realizzata, in occasione dell’inaugurazione dell’acquedotto pugliese, durante il ventennio, quella fontana non fu solo il simbolo di un paese, non soltanto una rappresentazione dello stemma araldico, bensì l’emblema del progresso che giungeva prorompente, inarrestabile come acqua che scorre appunto. L’opera dell’acquedotto pugliese è ancora oggi definita “faraonica” e la fontana doveva, in parte, testimoniarlo.
Realizzato dal maestro Michele Gaballo, autore di innumerevoli lavori importantissimi, il gruppo scultoreo si appresta a compiere il suo ottantaduesimo compleanno così, spenta. La data dell’inaugurazione “28 ott 1930” viene riportata al centro di uno scudo, posto a chiave dell’arco di anguille sguscianti che incornicia il toro. Quest’ultimo è mitizzato nell’atto di rompere con lo zoccolo anteriore una lastra superficiale di arida terra, così da scoprire un ruscello d’acqua fresca e santa in un periodo di siccità. La leggenda vuole che quel luogo fosse destinato all’insediamento del centro abitato.
La foto-cartolina che qui riporto è una riproduzione dell’originale d’epoca, e una chicca per appassionati; si evince infatti che uno dei due scudi laterali, quello a sinistra, non è conforme a quello cui siamo abituati a vedere oggi, rappresentante cioè un delfino, bensì il fascio littorio e l’incisione “A _ VIII”. La modifica venne apportata successivamente, dopo alcune pressioni, dal Gaballo stesso per dissimulare ed occultare definitivamente ogni riferimento al regime.
Oggi le due meduse sormontate da giare che per decenni hanno dissetato diverse generazioni, invitando le genti sotto i versi del serafico Francesco “…utile et umile et preziosa et casta”, soffrono la sete della trascuratezza.
Anche il professore Giacinto De Metrio, artista e nipote del Gaballo, che tanto in passato si è speso per rinnovare la memoria del prestigioso zio, si augura che alla fontana sia ridato presto l’originale splendore che merita, in ottemperanza allo stile che fu.
Gianluca Fedele
Comunità Militante
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